Da Euroconferencenews.it
Per decenni, la professione si è fondata su un modello individuale. Il titolare dello studio rappresentava il perno attorno al quale ruotava un’intera struttura, spesso di tipo familiare, con un numero contenuto di collaboratori. La clientela era fidelizzata grazie al rapporto personale e alla prossimità geografica, e la concorrenza si giocava principalmente sulla fiducia costruita nel tempo, più che sul prezzo o sull’efficienza.
Questo approccio si adattava a un contesto economico più stabile, dove le esigenze delle imprese ruotavano attorno a servizi ordinari: contabilità, buste paga, adempimenti fiscali. La pressione sui margini era ridotta e la gestione avveniva con ritmi meno serrati rispetto all’attuale scenario.
Negli ultimi vent’anni, tutto è cambiato. Globalizzazione, digitalizzazione e iper-regolamentazione hanno aumentato la complessità della consulenza, trasformando radicalmente le aspettative dei clienti. Oggi le imprese chiedono risposte tempestive, consulenze specialistiche e visioni integrate, in tempo reale. Di conseguenza, il valore delle prestazioni standardizzate è calato, anche per via della crescente automazione.
In questo contesto, il professionista isolato appare più vulnerabile. Il lavoro solitario non consente di affrontare la crescente complessità, né di investire in tecnologia e formazione con la necessaria continuità. L’aggregazione tra professionisti sta quindi emergendo come una risposta strutturale, non solo tattica, alle nuove esigenze del mercato.
Aggregarsi per crescere: efficienza, qualità, confronto
L’evoluzione non è solo teorica: i dati confermano il trend. Le Società tra Professionisti (STP) sono passate da 438 nel 2016 a ben 1.768 nel 2023, con un incremento del +11,8% nell’ultimo anno. Il fenomeno interessa tutto il territorio nazionale, con il Centro Italia in testa (+13%), seguito dal Sud (+10%) e dal Nord (+9,2%). Questi numeri raccontano una trasformazione strutturale, non un semplice cambiamento organizzativo.
I benefici dell’aggregazione si articolano su diversi livelli:
- Efficienza operativa: condividere risorse tecnologiche, logistiche e umane consente di eliminare le ridondanze. Le attività ripetitive possono essere standardizzate, migliorando la produttività e abbattendo i costi.
- Specializzazione e qualità del servizio: la struttura associata permette ai singoli professionisti di focalizzarsi su ambiti specifici, sviluppando competenze verticali (es. operazioni straordinarie, fiscalità internazionale, diritto del lavoro). Il risultato è una consulenza più tecnica, completa e autorevole.
- Confronto e crescita interna: il dialogo continuo tra colleghi valorizza l’esperienza individuale e alimenta una cultura del miglioramento costante, favorendo lo sviluppo professionale a ogni livello.
- Attrattività per i giovani: le nuove generazioni cercano ambienti dinamici e strutturati. Entrare in uno studio associato diventa una scelta strategica, dove le competenze vengono valorizzate e il percorso di crescita è più chiaro.
Le condizioni per un’aggregazione che funziona
Tuttavia, l’aggregazione non è una panacea. Non sempre funziona, e può diventare fonte di inefficienze se mal gestita. Spesso, la resistenza deriva da fattori culturali: timore di perdere autonomia, visibilità o il controllo sul cliente. Quando l’unione è solo formale, senza integrazione reale, si creano più problemi che soluzioni.
Perché l’aggregazione abbia successo, servono alcune condizioni fondamentali:
- Progetto gestionale condiviso: l’aggregazione deve nascere da una visione comune e strutturata, orientata alla crescita armonica e alla valorizzazione del contributo individuale.
- Impianto organizzativo coerente: non basta lavorare insieme, serve costruire uno studio con regole, processi e obiettivi condivisi. La conoscenza deve diventare patrimonio comune e non restare chiusa nei singoli.
- Cultura della condivisione: la collaborazione deve essere autentica. Chi condivide saperi e strumenti, lavora meglio, crea sinergie e riduce le inefficienze.
- Comunicazione interna efficace: servono momenti di confronto strutturati, strumenti di comunicazione condivisi e una gestione trasparente delle informazioni operative. Solo così l’aggregazione diventa un vantaggio competitivo.
Cosa evitare: il rischio delle aggregazioni “di facciata”
Quando l’aggregazione è solo sulla carta, i problemi aumentano. Alcuni esempi ricorrenti:
- gestione del personale sbilanciata: collaboratori legati a singoli professionisti, con reparti sovraccarichi e altri sottoutilizzati.;
- mancanza di criteri comuni di rendicontazione: ognuno valuta la redditività secondo metriche proprie, impedendo una lettura strategica complessiva;
- assenza di coordinamento operativo: strumenti gestionali diversi, processi duplicati, decisioni scollegate tra loro.
In questi casi, l’aggregazione peggiora la performance anziché migliorarla.
Conclusione: aggregazione come scelta, non obbligo
Guardando al futuro, l’aggregazione è un’opportunità reale, ma non è l’unica via. Ogni studio ha una propria identità e può costruire un modello efficace anche senza associarsi, a condizione di sviluppare una chiara strategia organizzativa ed economica.
L’importante è interpretare il cambiamento con consapevolezza, adottare strumenti coerenti con i propri obiettivi e gestire la crescita in modo professionale. La vera leva del successo non è la forma associativa in sé, ma la capacità di guidare l’evoluzione del proprio studio, con metodo e visione.
L’aggregazione va valutata senza ideologia: può essere la soluzione giusta per molti, ma non per tutti. L’importante è decidere se e quando farne leva, in modo coerente con il proprio percorso e le proprie ambizioni.