Dal Sole24Ore.
L’ultima segnalazione arrivata in redazione riguarda il Comune di Chiari, in provincia di Brescia. «Il compenso del collegio uscente – si legge nel bando per la nomina dell’organo che controlla i conti – è pari a 6.930 euro annui» per il componente, ed è aumentato del 50% per il presidente come prevede l’articolo 241 del Tuel. L’indicazione, specifica il bando, è data «a fini puramente indicativi». Ma è sintomatica di una tendenza che trova conferme continue in tutta Italia: la tendenza a tenere i compensi dei revisori molto più in basso rispetto a quelli suggeriti dai parametri normativi.
Perché Chiari, ad esempio, ha oltre 19mila abitanti. E nelle tabelle allegate al decreto del 21 dicembre 2018 per fissare le retribuzioni dei revisori si legge che in quella fascia demografica il tetto di riferimento del «compenso annuo base» è di 12.890 euro lordi. Poco meno del doppio di quello scritto nel bando. Il problema, si diceva, è diffuso. Ed è anche antico. Al punto da aver spinto lo stesso Osservatorio del Viminale sulla finanza e la contabilità degli enti locali a intervenire con più atti di orientamento richiamati anche dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti.
Nel tentativo di contenere i “risparmi” perseguiti dagli enti locali sulle tasche dei professionisti, l’Osservatorio ha fissato una regola in virtù della quale il compenso non può mai essere inferiore al massimo previsto per la fascia demografica immediatamente inferiore a quella dell’amministrazione interessata. Nel caso di Chiari, si tratterebbe dei 10.150 euro indicati per i Comuni fra 5mila e 9.999 abitanti.
Ma questo vincolo è spesso rimasto lettera morta nella pratica di molti enti. E, quel che è peggio, non ha trovato ascolto nemmeno nei tribunali a cui si sono rivolti i professionisti.
Rovello Porro, municipio di 6.300 abitanti in provincia di Como, si è visto per esempio dar ragione a Milano, sia in primo grado sia in appello, sulla base dell’«insuperabile dato testuale della norma in esame (l’articolo 241 del Tuel, ndr) , che pone come unico limite di spesa quello del tetto massimo del compenso». Un confine del genere, nel ragionamento dei giudici, non può essere superato da un atto di indirizzo dell’Osservatorio, e nemmeno dalla legge sull’equo compenso. Perché quella norma (articolo 19-quaterdecies del Dl 148/2017), indica che la Pa «garantisce il principio dell’equo compenso». E questo principio sarebbe contemplato dal Dm sui compensi perché ha tenuto conto che «le funzioni del revisore contabile nell’ultimo decennio sono esponenzialmente aumentate», come si legge nella premessa.
Sul piano del formalismo giuridico, l’impianto sembrerebbe tenere. Ma sul terreno pratico sfocia in un paradosso curioso quanto evidente, per il quale i principi dell’equo compenso sarebbero garantiti da un decreto che allo stesso compenso fissa tetti massimi, ma nessun limite minimo: come sottolinea la stessa sentenza.
In questo iato fra la teoria e la realtà si infilano le delibere che in molti enti, soprattutto lontano dalle grandi città, tengono le cifre riconosciute ai revisori a livelli da volontariato; non esattamente la leva più efficace per incentivare i professionisti più preparati e garantirsi controlli della qualità necessaria a evitare guai peggiori in futuro.